Nel 1861 è proclamato il Regno d’Italia. Di fatto, però, il paese soffre di una mancanza d’identità; le realtà sociali sono molto diverse da regione a regione, così come le tradizioni e le moltitudini di dialetti che sostituiscono in altissima percentuale la lingua nazionale. Quest’unione profonda è cercata attraverso le arti, la musica e la letteratura. Il realismo e il naturalismo francesi in Italia erano maturati in direzione “veristica”. Dopo i primi riusciti, ma ancora regionali, esordi di Giacinto Gigante, della scuola di Posillipo e dei fratelli Palizzi, l’orizzonte si allarga verso una più vasta scala: sono i pittori Domenico Morelli e Saverio Altamura a far compiere questo passo, portando in Toscana i frutti dell’esperienza napoletana che, a sua volta, grazie a Giuseppe Palizzi aveva percepito e meditato sugli esiti dei pittori di Barbizon, veduti in Francia. In Toscana maturavano altre esperienze. Personalità quali Diego Martelli, scrittore o teorico e lo scultore Adriano Cecioni avevano attentamente valutato le nuove correnti che emergevano fuori d’Italia, allo stesso modo come valutavano la situazione del loro paese. L’impressionismo, però, non trovava seguito in Italia, dove la realtà e la tradizione erano cose ben diverse da quelle francesi. Nel 1859 arriva a Firenze un pittore il cui esempio sarà fondamentale per gli sviluppi dell’arte in Italia, Nino Costa; tra tutti, chi maggiormente beneficiò di quegli esempi fu Giovanni Fattori, pittore, disegnatore e incisore. Con i primi anni sessanta si definisce il carattere della pittura cosiddetta di “macchia”; principali esponenti di questa poetica sono: Cristiano Banti, Silvestro Lega, Telemaco Signorini, Giovanni Fattori, Odoardo Borrani, Vincenzo Cabianca, Raffaello Sernesi. Altri artisti importanti ma che hanno proceduto in direzioni diverse sono: Federico Zandomeneghi, Giuseppe De Nittis, Giovanni Boldini, Vito D’Ancona. Questi artisti facevano parte della cosiddetta scuola di Castiglioncello, dove si riunivano attorno alla figura di Diego Martelli, e a quella di Piagentina. Giovanni Fattori, uno dei massimi pittori dell’epoca, rimarrà sempre ostile e diffidenti nei confronti della pittura impressionista. Questo suo atteggiamento trova motivo nell’attenzione che egli riponeva alla costruzione grafica dell’immagine. Il colorismo impressionista, affidato ai sensi e alla percezione della realtà attraverso i diversi fenomeni atmosferici, arrivava sino ad annullare la forma, come si vede chiaramente nella produzione ultima di artisti quali Monet, Sisley e Pissarro, ma che era evidente già sul finire degli anni sessanta. Esiti notevoli, Fattori li ebbe con i paesaggi del periodo di Castiglioncello e con soggetti come i Gendarmi e le scene della marcatura dei torelli e quelle campestri; sicuramente Fattori ebbe occhi unicamente per la maremma, di cui fu sensibile interprete, ma in lui c’è anche una tempra artistica, un’idea e una qualità che lo portano fuori dei confini regionali, segnando una stagione unica per l’arte italiana e no. Fu anche profondo e intenso ritrattista, come possiamo vedere nelle opere raffiguranti la moglie e la figliastra, nonché negli autoritratti dell’età anziana.  Parallelamente in letteratura maturava il verismo; in Toscana con le novelle crude e asciutte di Renato Fucini, che come pseudonimo usava Neri Tanfucio, con cui firmò le sue Veglie di Neri (raccolta di racconti). Nel panorama nazionale emergeva Giovanni Verga che, dopo un’esperienza romantica, giungeva al Verismo con un linguaggio poetico personalissimo. Alle spalle del verismo italiano era il naturalismo francese, di matrice positivista, di Zola. Non dobbiamo in ogni modo pensare che l’uno fu meno derivato dell’altro, proprio per quelle esigenze e differenze che c’erano tra le due culture; difatti, molto diversi furono gli esiti e, molto spesso, anche i propositi.

(da artway.it)

 

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